mercoledì 12 novembre 2014

Il bambino oppositivo: comprenderlo, aiutarlo, gestirlo


I bambini con comportamenti di tipo oppositivo sono sicuramente di difficile gestione per un genitore. Sono solitamente spesso “in castigo”, sembra abbiano il potere di far arrabbiare tutta la famiglia. In termini psicologici, questo tipo di atteggiamento, se portato all’estremo, può configurarsi in un vero e proprio disturbo: il disturbo oppositivo provocatorio. Vediamo le sue caratteristiche.

I bambini con questo disturbo, che però deve essere diagnosticato da un professionista competente, da almeno sei mesi presentano almeno quattro fra le seguenti caratteristiche:

spesso vanno in collera

spesso litigano con gli adulti

spesso sfidano attivamente o si rifiutano di rispettare le richieste e le regole degli adulti

spesso irritano deliberatamente le persone

spesso accusano gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento

sono spesso suscettibili o facilmente irritati dagli altri

sono spesso arrabbiati e rancorosi

sono spesso dispettosi e vendicativi

Da numerose ricerche si è visto che i bambini con queste caratteristiche emettono i loro comportamenti a partire da alcuni stimoli, situazioni, fatti, che prendono il nome di “antecedenti”. Questi sono di solito cose che il bambino vorrebbe e mancano oppure cose che il bambino non vorrebbe e invece ci sono. A questo punto il bambino oppositivo emette i comportamenti di cui sopra. In genere i bambini con queste caratteristiche vivono tali situazioni (gli antecedenti) come “colpa”, coma causati da qualcuno (“è colpa tua”). Cioè qualcuno ha causato la mancanza o la presenza indesiderata. Quindi il comportamento oppositivo ha spesso il significato di “qui faccio come voglio io e tu non ti intrometti”. Spesso i bambini con queste caratteristiche hanno una visione particolare dell’autorità (rappresentata dai genitori, dalla maestra ecc.). Essi la vedono come qualcosa di negativo e ingiusto. L’autorità ingiusta quindi deve essere ostacolata e rimossa. Questo sembra essere il contenuto del pensiero dei bambini oppositivi. Quindi come fare per aiutarli? Come gestire il loro comportamento? Ecco qua alcune “buone prassi”.

1)      Essere giusti. Se il bambino litiga col fratellino piccolo perché quest’ultimo gli ha rubato un gioco non intervenire dicendo “lascia stare tuo fratello che è piccolo. Sei sempre il solito!”, ma riprendere il fratellino, che ingiustamente ha sottratto il gioco.

2)      Concordare le cose da fare. E’ meglio concordare con il bambino cosa si farà: Ad esempio dire. “Quando preferisci fare il bagno? Oggi pomeriggio o stasera?”

3)      Poiché i comportamenti oppositivi hanno la funzione di ridurre l’intrusività altrui e riprendere il controllo e di attirare l’attenzione delle persone vicine affettivamente, è importante dare attenzione al bambino quando non la chiede secondo modalità disfunzionali. Ad esempio quando il bambino è seduto tranquillo sul divano, avvicinarsi e parlargli amorevolmente.

4)      Rinforzare il bambino con lodi o piccole sorprese positive quando fa qualcosa di giusto. La lode o la sorpresa devono avvenire in un tempo vicino a quando il bambino si comporta bene e devono essere collegate al comportamento positivo. Ad esempio dire “Bravo che sei venuto con me a fare la spesa e ti sei comportato bene”.

5)      Mettere il bambino in “time out” (allontanarlo nella sua stanza ad esempio) per qualche minuto, quando si comporta palesemente in maniera aggressiva e scorretta.

martedì 28 ottobre 2014

La depressione: cos'è, quali le cause, come superarla


La depressione è una della problematiche psicologiche più diffuse dei nostri tempi. Da numerose indagini, infatti, risulta che dal 4 al 10% degli adulti , il 2% dei bambini e il 4% degli adolescenti ha in un anno un episodio di depressione che dura almeno due settimane. Complessivamente, circa il 15% delle persone ha un episodio di depressione almeno una volta nella vita. Più episodi depressivi si sono avuti, più è facile averne di nuovi, se non ci si cura in modo adeguato. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, fra tutte le malattie, la depressione è al quarto posto come importanza per le sofferenze e il rischio di disabilità che comporta.
E’ importante distinguere la depressione dalla tristezza, che capita a tutti di sperimentare talvolta, poiché la depressione è una forma di tristezza molto profonda, duratura ed invalidante.




Ma in cosa consiste la depressione? Quando possiamo dire di una persona che “è depressa”?

Innanzitutto, chi sperimenta questa condizione ha un umore triste e melanconico per la maggior parte del giorno quasi ogni giorno. La persona cioè appare differente rispetto a prima e passa buona parte della giornata nell’isolamento o nel pianto o persa nei suoi pensieri. Nei bambini e negli adolescenti l’umore può diventare irritabile.
Inoltre, la persona che si ammala di depressione perde l’interesse verso ciò che prima le piaceva e la faceva stare bene. Non è infrequente notare come persone che provavano piacere nello stare in compagnia diventino solitarie e arrabbiate col mondo o persone che amavano camminare o dipingere che riferiscono di non essere più interessate a fare quello che facevano prima.
Infine possono comparire anche altri sintomi: variazioni di peso, cambiamento nelle abitudini riguardo al sonno, maggiore agitazione o, al contrario, maggiore lentezza nel fare le cose, mancanza di energia e sensazione di fare un’enorme fatica per compiere i normali gesti quotidiani, sentimenti di colpa o di autosvalutazione, difficoltà di concentrazione, difficoltà nel prendere le decisioni, e infine pensieri ricorrenti di morte o idee suicide.
Tutti questi sintomi nella depressione sono talmente forti da compromettere notevolmente qualità della vita (ad esempio la persona non riesce più a relazionarsi con gli altri, a lavorare, a condurre la sua vita in modo adeguato e soddisfacente). Non si può parlare di depressione se a causare questi sintomi è l’uso di qualche sostanza stupefacente o se la persona si trova in una condizione di lutto. Infatti, quando si perde una persona cara ci sono dei momenti in cui compaiono dei sintomi simili a quelli sopra descritti ma, in genere, tendono a scomparire spontaneamente nell’arco di alcuni mesi.

Ma da dove arriva, perché nasce la depressione?
Di preciso non è ancora stata trovata un’unica causa. Le teorie principali sono biologiche, genetiche e sociali. A livello biologico nelle persone depresse c’è una minore produzione da parte del cervello di alcune molecole responsabili del “buonumore”. Negli anziani la depressione può essere provocate anche da carenza alimentari o dagli effetti collaterali di alcuni farmaci.
A livello genetico si è visto che i parenti di primo grado di una persona con disturbo depressivo maggiore hanno un rischio di due o tre volte più altro di avere nella loro vita un episodio depressivo. Si dice quindi che c’è una familiarità per i disturbi di questo genere.
Inoltre ci possono essere altre cause: separazioni coniugali, uscita dei figli di casa, difficoltà familiari in genere, malattie fisiche, difficoltà scolastiche, problemi lavorativi, trasferimenti, problemi legali, problemi economici.
Talvolta, anche momenti in apparenza lieti come la nascita di un figlio o una promozione sul lavoro possono essere motivo di depressione, se la persona non si sente all’altezza della situazione o vede la realtà che lo circonda come estremamente difficile e senza possibilità di miglioramento.

Quali sono le conseguenze della depressione?
La depressione non investe soltanto la persona che la sperimenta, ma ha conseguenze negative anche su chi le sta intorno. I familiari infatti possono essere preoccupati e magari anche un po’ infastiditi dal suo comportamento, poiché la depressione si accompagna a lamentosità e irritabilità.. A volte poi, si verifica quello che si chiama “contagio emotivo”: il “cattivo umore”, per così dire “passa” da una persona all’altra e così, anche chi non era depresso, si trova suo malgrado a parlare e a sorridere di meno. Nei giovani la depressione si può associare all’uso/abuso di sostanze stupefacenti e alcool, che, ovviamente, non fanno che peggiorare la situazione nel suo complesso. Un problema che si riscontra talvolta associato alla depressione è un vissuto di vergogna rispetto alla propria condizione. Per qualcuno non essere al massimo, in una società che esalta le prestazioni ad ogni costo, diventa motivo di auto denigrazione. Chiaramente la vergogna per la propria situazione non solo è inutile (dato che la depressione è una malattia, sarebbe come se una persona si vergognasse di avere la febbre) ma anche dannosa, perché ritarda il momento in cui la persona decide di chiedere aiuto e curarsi. Paradossalmente, chi accetta di essere depresso trova più semplice affrontare e sconfiggere la depressione.

Cosa si può fare per sconfiggere la depressione?
Oltre al supporto farmacologico, che deve essere chiaramente prescritto e monitorato da un medico, a livello psicologico è possibile, per chi soffra di depressione, mettere in pratica le seguenti strategie:

-       Cercare di fare ogni giorno una piccola cosa piacevole. Questo perché nella depressione si perde il senso del piacere e ogni cosa sembra faticosa e difficile. Recuperare qualche momento piacevole serve per dimostrare a se stessi che la vita non è poi così brutta.

-        Cercare di trascorrere una parte del proprio tempo con qualcuno con cui si sta volentieri. Questo perché l’affetto e il riconoscimento delle persone aumenta la sensazione di valore personale e accresce il desiderio di mettersi nuovamente in contatto con gli altri.

-         Cercare di fare, se possibile, una piccola quantità di attività fisica, ogni giorno, poiché è stato riportato in numerosi studi come il movimento, in assenza di controindicazioni di tipo medico, possa avere un ruolo nell’innalzare il tono dell’umore.

-         Non porsi obiettivi troppo elevati da raggiungere. Ad esempio, se una persona depressa volesse pulire casa sarebbe meglio si fissasse degli obiettivi intermedi e da raggiungere gradualmente. Per esempio, potrebbe dedicarsi un giorno alla pulizia dei pavimenti, l’indomani a quella dei vetri ecc.

-         Fare attenzione al proprio modo di pensare e cercare di modificarlo (questo potrebbe richiedere l’aiuto di uno specialista). Si è visto come chi soffre di depressione tende ad esagerare in senso negativo, inconsapevolmente, la visione di sé, del mondo e del futuro. I pensieri negativi fanno peggiorare sempre più il tono dell’umore. Riconoscere questi pensieri esagerati e disfunzionali e sostituirli con altri più realistici e funzionali è molto importante.

 
Infine qualche suggerimento per i familiari che hanno tra i propri cari qualcuno che manifesta i sintomi sopra descritti:


-         Non sdrammatizzare: non dire “ma dai, cosa vuoi che sia?”, non far sentire in colpa “potresti avere tutto per essere felice e invece?”, non esortare a cambiare facendo credere alla persona che “con un po’ di forza di volontà potrebbe farcela”. In realtà non è così semplice e , se la situazione perdura, meglio rivolgersi ad uno specialista.

-         Cercare di essere rispettosi. Non dimentichiamoci che abbiamo di fronte una persona che soffre.

-         Proporre delle attività che siano gradite per la persona. Come si diceva sopra, è importante per la persona ritrovare il senso del piacere.

-         Ricavare del tempo per sé. Poiché stare a fianco di una persona depressa può essere molto difficile, è importante ritagliarsi degli spazi piacevoli solo per sé, in cui “ricaricare le batterie”.

 

 

 

 

 

lunedì 15 settembre 2014

Le conseguenze dell'ansia patologica

Una delle principali conseguenze dell'ansia patologica (eccessiva, che viene sperimentata troppo spesso e troppo intensamente) è l'evitamento. La persona, cioè, sceglie di evitare le situazioni che le causano ansia, nel tentativo di proteggersi dai pericoli percepiti.
A volte l'evitamento riguarda anche i pensieri di tipo ansiogeno. L'individuo sceglie cioè di "non pensare" a ciò che lo preoccupa, rendendosi però conto che il "non pensarci" è impresa assai ardua. Inoltre evitare le situazioni che provocano ansia non permette di risolverle e di scoprire, in molto casi, che il pericolo che veniva percepito non era poi così grosso, così importante come si pensava.
Un'altra conseguenza dell'ansia eccessiva, legata strettamente alla precendente, è il rimandare le cose da fare che causano preoccupazione. Se qualcosa ci turba, ma lo dobbiamo fare, è certo che quel qualcosa finirà in fondo alla lista degli impegni. Anzi, se qualcuno lo fa al posto nostro, tanto meglio.
Il problema è che rimandando all'infinito la risoluzione dei problemi o evitandoli non ci rendiamo nemmeno conto che, con un pò di sforzo, quei problemi in realtà noi siamo in grado di risolverli. Se non li affrontiamo mai ci rimarrà la spiacevole sensazione che le cose sono più grandi di noi e che siamo impotenti rispetto ad esse. 
Inoltre l'ansia patologica si accompagna spesso con un fenomeno che si chiama "catastrofizzazione". Chi è molto ansioso, cioè, percepisce le conseguenze delle proprie azioni o di ciò che potrà accadere come una vera e propria catastrofe e i pensieri che affollano la sua mente sono del tipo: "se dovesse accadere ciò di cui ho paura sarebbe terribile, non potrei proprio superarlo".
Nella maggior parte dei casi, però, dopo un'attenta riflessione, si scopre che ci sono ben poche situazioni realmente insuperabili e che di fronte alla maggior parte dei problemi esistono soluzioni realmente praticabili.
Questa sono alcune tra le conseguenze principali dell'ansia eccessiva.
 
 
 
 
 
Ad Ottobre terrò presso il mio studio di Piancogno due incontri rivolti ad un piccolo gruppo di partecipanti in cui sarà possibile approfondire e personalizzare il tema del vissuto personale dell'ansia e capire come contrastare attivamente i pensieri ansiogeni. Chi fosse interessato a partecipare può trovare la locandina dell'evento nella sezione "prossime iniziative".

mercoledì 23 luglio 2014

Ansia: se la conosci...



Spesso nel mio lavoro mi trovo a che fare con persone che soffono di ansia eccessiva. Ma cos'è l'ansia? E quando si può definire "esagerata"?
L'ansia è un'emozione legata alla sensazione che qualcosa di brutto sta per accadere o accadrà nel breve periodo. Come tutte le emozioni, essa serve a qualcosa, altrimenti non esisterebbe.
A cosa serve quindi l'ansia? Per rispondere a questa domanda bisogna ricordare che essa è simile alla paura. Ansia e paura sono "sorelle" e servono per avvisarci che c'è un pericolo e che bisogna fare qualcosa per affrontarlo. Provate a pensare che state attraversando una strada trafficata. Improvvisamente verso di voi sopraggiunge un camion a forte velocità, che non accenna a rallentare. Se in quell'occasione non provassimo paura non avremmo la prontezza di correre il più velocemene possibile sull'altro lato della strada per metterci in salvo. Quindi l'ansia e la paura ci servono per difenderci dai pericoli.
Anzi, in alcune circostanze un certo livello di ansia ci permette di rendere al meglio. Proviamo a pensare se dovessimo sostenere un colloquio di lavoro e non provassimo per niente ansia. Non ci importerebbe molto del colloquio, non presteremmo attenzione all'interlocutore nè a ciò di cui stiamo parlando e probabilmente non riusciremmo a superare positivamente la situazione.




Ma cosa accade quando ansia e paura si presentano in situazioni in cui ci rendiamo conto oggettivamente che grossi pericoli non ce ne sono? Oppure quando occorrono troppo frequentemente in modo da condizionarci la vita e impedirci di fare delle esperienze che riteniamo "normali", importanti per noi o che comunque vorremmo fare?
Se siamo in una di queste situazioni (cioè di ansia sperimentata troppo frequentemente o in casi in cui riconosciamo che effettivamente il pericolo non c'è o non è tale da giustificare una reazione ansiosa esagerata oppure se ci rendiamo conto che stiamo evitando molte situazioni per paura che qualcosa di grave possa accadere) ci troviamo nel campo dell'ansia esagerata o "patologica".
Nel prossimo post vedremo meglio quali sono le conseguenze dell'ansia patologica.


immagine da insiemedap.it

mercoledì 9 luglio 2014

Attacchi di panico: che fare?


 
Nel post precedente avevo raccontato la storia di Marco, che ha paura di guidare in autostrada perchè teme di avere proprio lì un attacco di panico, dato che gli è già capitato in passato di averne in quella situazione.
Ora cerchiamo di rispondere ad alcune domande.

Perchè insorgono gli attacchi di panico?

Come si possono sconfiggere e tornare a stare meglio?





Innanzitutto diciamo che il primo attacco di panico, di solito, si verifica in un momento stressante, dal punto di vista fisico o psicologico per la persona.
Ad esempio una persona può avere il primo attacco di panico in seguito al lutto per la morte di una persona cara, oppure durante o appena dopo un periodo di super lavoro o di affaticamento, e così via.
Però successivamente gli attacchi di panico si mantengono in genere a causa della presenza di due fattori.
Il primo si chiama iperventilazione, e consiste nella tendenza a respirare più frequentemente o più profondamente ai primi sintomi di ansia.
E' stato dimostrato che iperventilare produce una serie di cambiamenti nel corpo, che aumentano la probabilità che l'attacco di panico si verifichi.
Un secondo fattore è l'interpretazione catastrofica dei sintomi dell'ansia. La persona che soffre di attacchi di panico, cioè, si spaventa per la sua stessa ansia, credendo che potranno accaderle cose terribili.
In questo modo però si auto genera ancora più ansia, e da lì può scatenarsi l'attacco di panico.

Cosa si può fare quindi per stare meglio?

La psicoterapia cognitivo comportamentale, in un tempo non eccessivamente lungo, che mediamente si attesta intorno alle 15-20 sedute, insegna alla persona:

- a modificare i pensieri catastrofici riguardanti le conseguenze dell'ansia e del panico e a sostituirli con pensieri più realistici

- a respirare in una maniera corretta, di modo che ai primi sintomi di ansia, la situazione venga "bloccata" e non si scateni il panico

- a sperimentare in maniera protetta (tramite delle esercitazioni da svolgersi in seduta o come "compito a casa" ) delle sensazioni fisiche che assomigliano a quelle suscitate dal panico, in modo da non averne più paura

- ad affrontare, un pò alla volta, le situazioni che venivano evitate per paura che potesse arrivare l'attacco di panico, in modo da dimostrare che è possibile farcela e riprendere in mano la propria vita.

Se Marco seguirà gli esercizi proposti nell'ambito della terapia in breve tempo riuscirà a riprendere a guidare normalmente e non dovrà più alzarsi due ore prima per andare al lavoro!

martedì 1 luglio 2014

Gli attacchi di panico: la storia di Marco


Marco (ogni elemento che possa rendere la persona riconoscibile è stato eliminato) è un ragazzo di 23 anni, fidanzato da tempo con una ragazza con la quale fa progetti di matrimonio. Da poco ha cambiato lavoro e qui...sono cominciati i problemi. Infatti il nuovo lavoro prevede uno spostamento in autostrada di circa un centinaio di chilometri al giorno ma Marco ha un problema: soffre di attacchi di panico e, siccome ha avuto altri attacchi di panico tempo fa proprio mentre guidava in autostrada, teme che la stessa esperienza possa ricapitargli e proprio non riesce a guidare in quella situazione.
Di conseguenza, per evitare l'autostrada percorre le strade statali fino ad arrivare a destinazione ma in questo modo ci mette moltissimo tempo per raggiungere la sede del lavoro. Si deve svegliare alle cinque ogni mattina, per essere sul posto alle nove.
Al ritorno lo stesso problema: l'ufficio chiude alle 18 ma lui non è a casa prima delle 20.
Inoltre il suo responsabile gli ha chiesto di fare dei viaggi di lavoro per mantenere i contatti con clienti di altre province ma questo implica il guidare in autostrada e Marco proprio non ce la fa.
Cosa succede a Marco? Cos'è un attacco di panico? Che sintomi comporta?




Un attacco di panico è un episodio di ansia acuta, di intensa paura o disagio, in cui si manifestano, in genere in un lasso temporale di dieci minuti o meno, almeno quattro tra i seguenti sintomi:
-palpitazioni
-sudorazione
-tremori fini o a grandi scosse
-dispnea (sensazione di "fame d'aria) o sensazione di soffocamento
-sensazione di asfissia
-dolore o fastidio al petto
-nausea o disturbi addominali
-parestesie (formicolii agli arti) e brividi o vampate di calore
-vertigini o sensazione di testa vuota
-derealizzazione (sensazione di distacco dalla realtà) o depersonalizzazione (sensazione di sentirsi staccati dal proprio corpo e di vedersi dall'esterno)
-paura di perdere il controllo o di impazzire
-paura di morire
Spesso il disturbo di panico (che prevede l'avere avuto attacchi di panico ricorrenti) si accompagna all'agorafobia, che è la paura di poter avere un attacco di panico in determinate situazioni.
Questa paura nasce perchè:
-la persona crede di poter avere in determinati luoghi un attacco di panico perchè proprio in quei luoghi le è capitato di averne
-la persona teme le conseguenze sociali di un attacco di panico in determinati luoghi
-la persona teme di poter avere un attacco di panico in situazioni considerate pericolose
Una conseguenza diretta dell'agorafobia è la generalizzazione: la persona tende cioè ad evitare sempre più situazioni, per un processo di diffusione della paura.
Ma come mai insorgono gli attacchi di panico?
E soprattutto cosa può fare Marco per stare meglio?
Nel prossimo post le risposte a queste domande...


giovedì 5 giugno 2014

Quello che un figlio direbbe di fronte alla separazione dei genitori

Stamattina, mentre stavo preparando il materiale per una serata formativa che terrò in una scuola materna la settimana prossima, mi sono imbattuta, consultando il libro "Vi lasciate o mi lasciate?" di Alberto Pellai e Barbara Tamborini, in un trafiletto, dove vengono riportate le parole che un figlio probabilmente direbbe trovandosi ad affrontare la separazione dei suoi genitori.

Queste parole mi hanno molto colpita e ho deciso di riportarle sul blog, confidando nel fatto che possano essere d'aiuto a tutti quei genitori che stanno affrontando una separazione o un divorzio.



Se un figlio potesse parlarvi con onestà e chiarezza, qual'è la lista delle cose che vorrebbe che voi sapeste:


Voglio che entrambi rimaniate coinvolti nella mia vita. Se potete, scrivetemi lettere, fatemi telefonate, chiedetemi un milione di cose. Quando non vi dimostrate coinvolti nella mia vita a me sembra di non essere importante e di non meritarmi il vostro affetto.

Per favore, non litigate troppo e cercate di andare d'accordo, per quanto questo sia possibile per una mamma e un papà che si separano. Cercate di trovare un'intesa su tutto ciò che mi riguarda. Quando litigate per causa mia penso di essere stato io a fare qualcosa di sbagliato e mi sento colpevole.

Voglio bene a entrambi e amo ogni istante che tracorro con ciascuno di voi. Perciò quando siete con me non mostratevi mai arrabbiati oppure gelosi, non fatemi domande su cosa e chi vede l'altro genitore perchè questo mi fa immaginare che volete che io stia dalla parte di uno o dell'altro e abbia delle preferenze nei vostri confronti.

Se dovete dirvi delle cose fatelo direttamente e non utilizzate me come ambasciatore dei vostri messaggi.

Quando parlate del genitore assente dite di lui/lei solo cose belle oppure, se non ci riuscite, state zitti.

Non dimenticate mai che voglio che entrambi rimaniate un punto di riferimento per la mia vita. Ho bisogno di una mamma e di un papà per diventare grande, per imparare ciò che è importante per me, per ricevere aiuto quando ho dei problemi.



Io le trovo delle parole molto toccanti, e voi?

 

domenica 18 maggio 2014

Cinque suggerimenti per insegnare le regole ai bambini




La modalità di far rispettare le regole ed impartire la disciplina ai bambini è da sempre un tema per il quale ricevo in studio diverse richieste di consulenza.
Per affrontare questo argomento parto oggi  dai risultati di alcuni studi che sono stati effettuati su bambini affetti da Disturbo Oppositivo Provocatorio e da Disturbo della Condotta. Questi bambini esibiscono livelli di rabbia persistente ed evolutivamente inappropriata, irritabilità, comportamenti provocatori e oppositività, che causano menomazioni nell’adattamento e nella funzionalità sociale.
Premesso che nel ricercare le cause dei disturbi di tipo psicologico si ipotizzino quasi sempre anche cause di tipo genetico/biologico, per quanto riguarda questo tipo di disturbo emergono anche modelli familiari inadeguati nell'impartire la disciplina. In particolare, le famiglie dei bambini con questo tipo di difficoltà si rivelano inconsistenti nell'impartire regole e nel farle rispettare oppure, al contrario, eccessivamente rigide e severe, magari occasionalmente e sull'onda dell'umore del momento.
Il risultato è che, i figli di genitori con un atteggiamento simile, imparano a considerare l'autorità come inaffidabile, inattendibile, inconsistente e/o ingiusta, e tendono quindi a non rispettarla.
 
Volendo utilizzare i risultati di questi studi per trasporli in situazioni di "normalità" possiamo dire che per impartire regole e disciplina in modo corretto ai bambini sia opportuno: 

1) dare poche regole e farle rispettare sempre (anche se il bambino si oppone e fa capricci)

2) nel caso di infrazione di regole prevedere delle conseguenze che consistono nella privazione di privilegi o di attività gradite al bambino (es. se non riordini la tua camera non potrai guardare i cartoni animati)

3) prevedere dei rinforzi positivi (piccoli premi, conseguenze positive, lodi) nel caso in cui il bambino si comporti bene

4) evitare di ricorrere a punizioni di tipo fisico (sculaccioni) perchè il bambino le rimetterebbe probabilmente in atto verso compagni di classe o in altre situazioni

5) dare punizioni proporzionate all'infrazione della regola commessa (no a punizioni eccessivamente dure o troppo durature)


domenica 27 aprile 2014

Disturbo d'ansia di separazione: quando "diventare grandi" è difficile

L'ansia di separazione è un fenomeno che si verifica quando un bambino fatica a separarsi dalle figure di riferimento (di solito i genitori) per affrontare delle esperienze in autonomia.
L'ansia assale il bambino, in genere, nel momento di andare a scuola, nel momento di andare a dormire, o quando deve essere affidato a qualcuno che non sia il padre o la madre.
Il malessere del bambino si può manifestare con pianti, segni di protesta, sintomi fisici (mal di pancia, mal di testa, nausea o vomito).
Immagine


Come in tutti i disturbi d'ansia, è importante comprendere al meglio i pensieri che il bambino ha nel momento in cui vive la separazione. In genere, i bambini che soffrono di questo disturbo temono che qualcosa di brutto potrà accadere a sè o al genitore mentre loro sono lontani perciò credono che, se resteranno accanto al genitore, ciò non accadrà.
Se però il bambino non si separa dal genitore avvengono delle spiacevoli conseguenze:
- il bambino non può constatare che, anche se si allontana, non accadranno cosa brutte o spiacevoli
- non potrà beneficiare di esperienze di socializzazione, apprendimento e crescita per lui importanti

Quando episodi di questo tipo compaiono saltuariamente e/o non hanno conseguenze rilevanti sulla vita del bambino li possiamo considerare fatti non preoccupanti e che possono spontaneamente risolversi.
Se però il problema perdura e limita il bambino nelle sue occasioni di crescita è opportuno rivolgersi ad uno psicologo specializzato nel trattamento dei disturbi d'ansia.

In generale cosa può fare un genitore per gestire al meglio la situazione?

1) evitare di allontanarsi dal bambino "di nascosto". Quando si va via è sempre opportuno dire dove e perchè ci si allontana e che presto (o il prima possibile) si ritornerà.

2) evitare di dire al bambino frasi come "se non fai il bravo vado via di casa" perchè alimentano nel bambino fantasie di perdita.

3)  evitare di dipingere il mondo come pieno di pericoli che il bambino non è in grado di affrontare. Cercare invece di valorizzare le opportunità presenti nell'ambiente ed eventualmente cercare con lui modi adatti per risolvere le difficoltà.

4) cercare il più possibile di non farsi vedere ansiosi/preoccupati di fronte alle reazioni del bambino o al momento del distacco. Vedere un genitore preoccupato non fa altro che confermare che davvero c'è qualcosa da temere.

5) evitare di pensare che al bambino debba essere evitata ogni fatica. Genitori che ritengono che il bambino non possa sopportare nemmeno una minima frustrazione tenderanno, di fronte alle prime proteste, a cedere e a tenere con sè il bambino, favorendo così l'incistarsi del problema.






venerdì 21 febbraio 2014

Mi sono accorta da poco che il modulo per contattarmi tramite il blog non funziona e ora l'ho rimosso dal blog. Chiedo a chi mi avesse contattato quindi tramite questa modalità e non avesse ricevuto risposta, di scrivere una mail a sandramagnolini@libero.it o di chiamare al mio numero di cellulare.  Grazie.

lunedì 3 febbraio 2014

Timidezza, che fare?

L'incontro sulla timidezza è stato sicuramente utile e produttivo.
Vorrei postare sul blog alcune tra le considerazioni che mi sono sembrate importanti, emerse dall'incontro:

- Come genitori è importante non avere fretta di "affibiare" al proprio figlio l'etichetta di "bambino timido".
Se un bambino si percepisce come "timido" sará meno spronato ad interagire con gli altri poichè penserá "sono timido, non c'è nulla da fare". E se è un genitore a definire il bambino "timido", egli ci crederá, poichė sa che il genitore ha ragione rispetto alle proprie affermazioni. Se un insegnante verrá a conoscenza dal genitore che suo figlio è timido potrá, chiaramente non intenzionalmente, mettere in atto delle modalitá di relazione con lui che potranno andare a rinforzare proprio i comportamenti di timidezza.

- È importante non avere aspettative irrealistiche.
 Non é logico pensare che un bambino prudente e un pò diffidente, in una situazione sociale nuova oppure un pò caotica possa essere estroverso e sicuro di sè. Del resto anche un bambino estroverso in una situazione non nota può rivelarsi particolarmente timoroso ed insicuro.

- È opportuno non far fare al bambino il passo più lungo della gamba.
Se nostro figlio ha dei comportamenti di timidezza non possiamo pensare che ad una festa di compleanno di un amichetto possa buttarsi nel gruppo più o meno grande dei bimbi invitati e giocare con naturalezza e spontaneitá.
Piuttosto ha maggiore utilitá, al fine di migliorare i comportamenti di timidezza, invitare un bambino alla volta presso la propria abitazione, al fine di consentire al proprio figlio di sperimentarsi socialmente con maggiore tranquillitá.

martedì 7 gennaio 2014

La timidezza fa ancora soffrire?

Negli ultimi tempi ho ricevuto numerose richieste da parte di genitori che mi chiedono come sia possibile aiutare un figlio timido ad essere meno "bloccato" nei rapporti interpersonali. Per questo motivo, quindi ho deciso di predisporre un incontro ad hoc, il 24 gennaio, che possa orientare genitori, insegnanti, e chiunque sia interessato al tema, a mettere in atto delle "buone pratiche" per evitare che la timidezza nell'etá evolutiva diventi un problema.
La timidezza è una forma di ansia sociale, è cioè un senso di disagio che viene sperimentato in maniera più o meno intensa, in situazioni in cui ci si trova a contatto con altre persone.
In particolare, la tipologia di persone che scatenano più ansia sociale, quindi più timidezza sono (in ordine di potenziale per innescare una reazione di timidezza):
1) estranei
2) autoritá, in virtù delle loro conoscenze
3) persone dell'altro sesso
4) Autoritá (in virtù del ruolo che rivestono)
5) parenti e stranieri
6) persone anziane (per i giovani)
7) amici
8) bambini (per le persone adulte)
9) genitori
10) fratelli e sorelle ( meno di tutti gli altri)

Le persone timide, in queste situazioni, hanno un forte timore di essere giudicate negativamente e, per questa ragione preferiscono restare nell'ombra e non partecipare, ad esempio, a conversazioni o discussioni, in modo da evitare ogni possibile rischio di valutazione negativa da parte degli altri.

Ciò è veramente un peccato poichè la timidezza:
-rende difficile incontrare persone nuove e gustare esperienze potenzialmente positive
- impedisce alle persone di difendere efficacemente i propri diritti e di esprimere le proprie opinioni e i propri valori
- favorisce un'eccessiva consapevolezza di sè e un'eccessiva preoccupazione per le proprie reazioni impedendo a se stessi di riuscire a sperimentare interesse per gli altri.

Queste e altre le conseguenze della timidezza.
Ma come fare per impedire che in un bambino o in un ragazzo si strutturi definitivamente un atteggiamento di timidezza che sia nel momento presente che in un futuro può essere causa di sofferenza? Cosa può fare un genitore per evitare tutto questo?
Nell'incontro del 24 gennaio verrá data risposta a queste domande.