mercoledì 21 novembre 2018

5 idee sbagliate sulla depressione

Spesso lavoro con persone che soffrono di depressione e uno dei motivi di sofferenza è il non sentirsi capite da chi sta loro accanto. Capita infatti che, se pure in buona fede, amici e familiari hanno un'idea della situazione non corretta che inevitabilmente si ripercuote sul corretto rapporto con la persona.

immagine su apc.it



Vediamo quindi quali sono i 5 pregiudizi più ricorrenti sulla depressione:

"È solo questione di buona volontà". Sarebbe come dire ad una persona infortunata con una gamba rotta: "su, alzati, fai una bella corsa". Purtroppo non funziona in questo modo. La depressione è una vera e propria malattia e come tale va considerata. La persona migliorerà, guarirà. Diamole il giusto tempo.


"La depressione è un problema di chi ha tempo da perdere". Come se la depressione fosse un "lusso", un "problema da ricchi". In realtà così non è. Molti studi dimostrano che la depressione è una problematica "democratica": può colpire senza distinzione di ceto sociale.


"Dalla depressione non se ne esce più". Ciò non è assolutamente vero, con una buona psicoterapia e, se necessario, una corretta terapia farmacologica è possibile tornare a stare bene.


"Capita a tutti di sentirsi un pò giù di morale ogni tanto, poi passa". C'è molta differenza tra un momento di tristezza e la depressione. Innanzitutto la durata. Chi è depresso passa molti giorni in cui l'umore è depresso per la maggior parte della giornata e perde il piacere verso le cose che prima lo interessavano e che faceva con passione. Inoltre spesso sente di aver perso qualcosa nella vita che per lui aveva un valore irrecuperabile (es. il lavoro, il partner ecc.) mentre nella tristezza questa sensazione di mancanza incolmabile non è presente. Si capisce quindi come tristezza e depressione siano due cose diverse.


"Esci un pò, divertiti!" Va da sè, avendo letto la parte precedente, che uscire e divertirsi sono un qualcosa che la persona non riesce a fare e, anche se lo facesse, probabilmente non riuscirebbe a sentirsi bene. Ha più senso quindi non dare consigli e suggerimenti alla persona depressa ma semplicemente suggerirle di consultare un esperto nel trattamento di questo tipo di problematica.


sabato 10 novembre 2018

La violenza psicologica: riconoscerla e saper chiedere aiuto

Si parla sempre più spesso di violenza di genere cioè quella forma di violenza che viene messa in atto all'interno della coppia dal compagno, marito,  fidanzato (o ex) verso la propria compagna.
La violenza fisica è la forma di violenza se vogliamo più eclatante e visibile ma esiste un altro tipo di violenza altrettanto pericoloso anche se talvolta meno evidente che è la violenza psicologica.

Cos'è violenza psicologica:

Umiliazioni dirette verso la partner (non sei capace, non capisci niente, sei una stupida)

Comportamenti manipolatori: se non fai questo io di conseguenza faccio/non faccio quest'altra cosa. Se esci con le tue amiche dirò ai bambini che non sei una brava mamma. Non sono io a sbagliare. Sei tu che non capisci.

Controllo costante ed ossessivo: dove sei? Con chi sei? Non voglio che tu esca con...
Chiamami, vengo a prenderti. Ti accompagno io. Voglio che passi tutto il tuo tempo libero insieme a me. Sei mia. Chi ti ha messaggiato? Le tue amiche non mi piacciono. Se sorridi ad un amico vuol dire che ci stai provando con lui.

Ovviamente la situazione è tanto più grave quanto più è ripetuta e frequente.

Come fare per tutelarsi, per difendersi da questo tipo di violenza?

La prima cosa da fare è prestare attenzione ad alcuni campanelli d'allarme che possono comparire fin dall'inizio della relazione o dopo un po' di tempo.

Vediamo di seguito quali sono:

Il partner è eccessivamente geloso e possessivo. Ti fa sentire come una regina ma pretende dedizione assoluta.

Parla male delle tue amiche e dei tuoi amici. Le tue amiche sono leggere e superficiali, delle "poco di buono", i tuoi amici hanno sempre un secondo fine.

Organizza cene, viaggi senza consultarti e non dà importanza al fatto che tu ti sia già organizzata diversamente. Se provi a obiettare si innervosisce o si arrabbia.

Questi comportamenti quanto più sono pervasivi, costanti e messi in atto in maniera irragionevole tanto più indicano una situazione che è meglio monitorare con attenzione.

Immagine su alfemminile.com

Cosa fare se invece si è immerse in una relazione che ha chiaramente le caratteristiche di una situazione violenta?

La prima cosa è credere alle proprie percezioni, sensazioni, emozioni non sentendosi sbagliate o "matte".

In secondo luogo è possibile parlare della situazione con una persona di cui ci fidiamo davvero, che possa condividere la difficoltà del momento e magari fornire anche un aiuto pratico.

Infine sono presenti degli sportelli che offrono aiuto.
Sul territorio di Brescia e della Vallecamonica troviamo:

Lo sportello antiviolenza di Darfo Boario Terme tel 0364 536632

Lo sportello di Capodiponte tel 338 3707282

La Casa delle Donne di Brescia tel 030 2400636







sabato 20 ottobre 2018

Esprimere una critica..con gentilezza

Quante volte sul posto di lavoro, in famiglia o con gli amici rinunciamo a manifestare il disaccordo? Oppure, al contrario, ci accorgiamo che, durante una discussione, stiamo offendendo il nostro interlocutore?
Entrambe queste situazioni, in base alla mia esperienza clinica, sono piuttosto frequenti e portano, nel primo caso, alla rinuncia ad esprimere le proprie idee e i propri sentimenti. Nel secondo caso ad allontanare chi ci sta di fronte e a non ottenere la soddisfazione di un nostro bisogno. 
Risulta quindi importante imparare a esprimere il proprio disaccordo con l'altro in una maniera assertiva, cioè non aggressiva ma nemmeno passiva. 
Ecco quindi alcune "buone prassi" che possono aiutare a comunicare al meglio con l'altro, quando vogliamo fargli capire che siamo stati ad esempio delusi o contrariati da un suo comportamento.

immagine su bimbonaturale,org



1) criticare il comportamento e non la persona. C'e molta differenza tra dire "sei un maleducato" e "quello che hai detto mi ha fatto sentire umiliato". Nel primo caso stiamo, magari involontariamente, attaccando l'altra persona; nel secondo caso stiamo parlando di noi, e, se lo facciamo usando il giusto tono e volume di voce, sarà difficile che l'altro si metta sulla difensiva o in una posizione di arroganza.

2) non lasciare passare troppo tempo. Non ha senso in una discussione dire frasi come "anche tu quella volta lo scorso anno .." quando magari il nostro interlocutore non si ricorda la questione alla quale ci stiamo riferendo. Se siamo arrabbiati meglio contare fino a 10 o lasciar passare la notte ma temporeggiare troppo non ci porterà a risolvere in maniera costruttiva una situazione.

3) trattare in privato anziché in pubblico. Criticare una persona in una situazione sociale equivale a metterla in forte difficoltà per il timore di "perdere la faccia" e, molto probabilmente, non otterremo un granché se non che l'altro probabilmente negherebbe ogni addebito e ogni responsabilità. Ha più senso cercare di chiarire una questione seria in privato, dove sarà più semplice comunicare.

4) mostrarsi disponibili all'ascolto. Anche se proprio non ci va ciò che l'altro ci sta dicendo, sforziamoci di non interromperlo e di ascoltarlo. Non c'è nulla di più indisponente di un interlocutore che interrompe frequentemente e che sembra anticipare ciò che l'altro dirà.

5) mostrarsi disponibili a trovare una soluzione ai problemi che il più possibile accontenti entrambi. Ricordiamoci che una critica costruttiva è quella dove non è prioritario vincere a tutti i costi ma ottimizzare i vantaggi per ambedue le parti. Questo ci garantirà un migliore rapporto con il nostro interlocutore che getterà buone basi per la risoluzione di ulteriori questioni in futuro

giovedì 6 settembre 2018

Se c'è qualcosa che temi..fallo più spesso che puoi!

Nel trattamento delle problematiche che riguardano l'ansia una delle tecniche che utilizzo con maggior successo prende il nome di "esposizione graduale". 

Cosa significa esporsi gradualmente ad un qualcosa che ci spaventa? 
Significa entrare in contatto con quell'esperienza molto gradualmente ma frequentemente, per piccoli passi, aspettando che l'ansia diminuisca progressivamente.


Immagine su Terzocentro.it

Faccio un esempio. Recentemente mi è capitato un caso di un signore che temeva fortemente di poter perdere il controllo e di gridare parole oscene durante una funzione religiosa. La cosa lo turbava molto perché quest'uomo è molto religioso e devoto. 
La paura di poter fare qualcosa di sconveniente lo aveva però spinto ad evitare la chiesa ormai da molto tempo, con suo grande dispiacere.
Potrebbe in apparenza sembrare una paura bizzarra ma in realtà questo è un timore non così infrequente.
Con lui abbiamo prima analizzato la probabilità oggettiva di accadimento di cio' che temeva.
Ci siamo cioè chiesti: da 0 a 100 quanto è possibile che accada l'evento temuto?
Questa riflessione serve per distinguere tra tutto ciò che teoricamente potrebbe accadere e ciò che ha una probabilità effettiva di succedere.
Un'altra domanda che ho posto a questa persona è stata: "A quante funzioni religiose ha preso parte nella sua vita?"
La risposta fu: "Moltissime. Sono andato svariate volte in pellegrinaggio anche all'estero". Ci siamo quindi interrogati su quante volte gli fosse capitato di assistere a fedeli che urlavano parole oscene durante una funzione. La conclusione fu che non si era mai verificato un fatto del genere.
Dopo circa una decina di incontri passati a ragionare su argomenti come questi, l'ansia del paziente si era ridotta in maniera sensibile.
Siamo quindi passati ad esercizi di esposizione vera e propria.
Gli ho chiesto quindi di prendere parte ai primi 5 minuti di una delle funzioni meno frequentate durante la giornata in un paese lontano dal suo (per ridurre l'ansia determinata dal fatto di poter essere riconosciuto nel caso si verificasse l'eventualità temuta).
Il paziente ha acconsentito e, con un po' di ansia, ha affrontato questo esercizio. 
Il secondo giorno siamo passati a 10 minuti e anche qui abbiamo avuto modo di verificare come cio' che temeva non si fosse verificato nemmeno in questa seconda occasione. 
Dai 10 minuti siamo passati ai 15 e così via fino a coprire l'intera durata della funzione.
Siamo poi passati alle funzioni più frequentate, anche qui con la stessa tecnica. Infine abbiamo applicato la stessa procedura nel paese di residenza del paziente.
Qual è stato il successo di questa terapia?
La ripetizione dell'esperienza.
È molto difficile che l'ansia si riduca mettendosi alla prova una volta ogni tanto. C'e' bisogno di ripetizione e di costanza. La psicoterapia è per certi versi paragonabile ad un allenamento sportivo. I risultati arrivano con costanza e autodisciplina.

mercoledì 25 luglio 2018

Un caso di encopresi

Luigi è un bambino di 4 anni (ogni riferimento che possa rendere identificabile la persona è stato tolto) che ha avuto uno sviluppo psicofisico nella norma. Anche il controllo sfinterico fino a qualche mese fa era normale. Poi, in seguito ad una vacanza con i cuginetti qualcosa è cambiato.

Luigi infatti rifiuta di scaricarsi e passano anche tre o quattro giorni senza che riesca a farlo. 
Alla fine ci riesce ma con molto dolore e anche molta paura di sentire quel dolore.

Inutile dire che in famiglia il momento dell'"andare in bagno" è ora vissuto con molta ansia, emozione che ovviamente "passa" al bambino e che non fa altro che complicare ulteriormente il quadro della situazione. 

I genitori di Luigi hanno un pò indagato e hanno scoperto che durante la vacanza al mare non era possibile chiudere a chiave la porta del bagno e questo aveva creato nel bambino la paura che qualcuno potesse accedere ai servizi mentre lui era all'interno. 

Questa paura aveva fatto si che la normale attività di evacuazione fosse cambiata perchè il bambino aveva evitato il più possibile di accedere al bagno per scaricarsi. 

Da lì si erano verificati i seguenti problemi:

1) ritenzione e accumulo di materiale fecale con dolore e conseguente paura di scaricarsi

2) perdita di parte del materiale fecale in situazioni inopportune (era capitato in più occasioni che si sporcasse gli indumenti) con conseguente ansia e vergogna da parte del bambino e dei suoi genitori

3) rifiuto di andare in bagno, sia alla scuola materna che a casa

4) limitazioni nella libertà dell'intero nucleo familiare, che non si sentiva più libero di uscire per qualche ora o per un week end fuori casa per paura che potessero verificarsi "incidenti" di cui sopra.


un caso di encopresi
immagine su nostrofiglio.it


Come ho impostato il lavoro con la famiglia di Luigi?

Innanzitutto ho scelto in questo caso di vedere in un primo momento esclusivamente i genitori di Luigi, questo per non accentuare la vergogna che il bambino già provava per la situazione che stava vivendo. 

Li ho rassicurati circa una possibile soluzione del problema. Infatti questa situazione aveva le caratteristiche per essere trattata in maniera positiva (non era presente da troppo tempo, i genitori sembravano molto collaborativi). Questo ha contribuito a renderli meno ansiosi e più tranquilli nell'approccio al problema del figlio.

Ho consigliato ai genitori di parlare con la pediatra per chiedere una consulenza in merito all'utilizzo di lassativi specifici per bambini. Questi prodotti hanno il vantaggio di rendere le feci morbide e di impedire la costipazione, cioè l'accumulo di materiale fecale nell'intestino. Inoltre ho suggerito di chiedere suggerimenti rispetto alla dieta più adeguata per favorire un adeguato transito intestinale.

Ho effettuato con loro delle sedute di psicoeducazione (trasmissione di informazioni corrette circa un fenomeno psicologico o fisico con risvolti di tipo psicologico). Durante queste sedute ho chiesto loro:

- di invitare Luigi ad andare in bagno dopo circa 15 minuti dalla fine di ogni pasto. Questo infatti è il momento più favorevole all'evacuazione.

- di premiare utilizzando la token economy ogni situazione di successo, cioè ogni volta che Luigi fosse riuscito a scaricarsi. In questo modo abbiamo cercato di modificare l'assetto emotivo del bambino facendolo passare da una condizione di ansia ad un atteggiamento di maggiore positività.


Con questi suggerimenti, e con il contributo della pediatra, nell'arco di due mesi  Luigi ha risolto i problemi di encopresi e le sottostanti emozioni negative. Tutta la famiglia inoltre ha recuperato tranquillità e libertà.

Cosa potete fare se il vostro bambino ha i problemi di Luigi?

1) Prima di tutto parlate col vostro pediatra di fiducia che potrà escludere eventualmente una problematica di tipo fisico-medico e potrà consigliarvi su cosa fare in prima battuta.

2) Non sgridate il bambino nel caso in cui si dovesse sporcare. Non dimenticate che è lui in primis a vergognarsi e a vivere negativamente ciò che sta capitando.

3) Rivolgetevi ad uno psicologo esperto di queste problematiche nel caso in cui sia accertata una componente psicologica nel mantenimento del problema o concomitante allo stesso. 



martedì 22 maggio 2018

Attacchi di panico: sono davvero pericolosi?

Spesso lavoro con persone che soffrono di attacchi di panico e la sensazione che mi riferiscono più spesso è la paura che possa capitare loro qualcosa di pericoloso durante questi episodi acuti ed intensi di ansia. 

In effetti le sensazioni che si provano durante un attacco di panico sono veramente forti e spiacevoli ma siamo veramente sicuri che siano pericolose per l'incolumità della persona in quel momento?
Vediamo di affrontare razionalmente questa convinzione.

sintomi dell'attacco di panico
immagine su psicoadvisor.com

Un ragazzo di 20 anni incontrato di recente mi riferiva della paura di svenire durante un attacco di panico. Mi riportava tra i sintomi dell'attacco la sensazione di testa vuota, di giramento di testa e di offuscamento della vista e ogni volta questi sintomi si accompagnavano appunto alla paura di perdere i sensi. 

Ragioniamo però sulle condizioni che portano una persona a svenire. 

Quando si sviene? Quando la pressione sanguigna  è alta o bassa? 

Senza ombra di dubbio quando la pressione è bassa. Quando la pressione del sangue è alta, cosa che si verifica durante un attacco di panico, la situazione che si verifica non è generalmente compatibile con uno svenimento. Quindi sicuramente la sensazione che la persona sperimenta è di poter svenire da un momento all'altro ma la realtà è ben altra cosa. 

Un altro timore di molte persone con attacchi di panico è di poter avere un "attacco di cuore". 

Ma cos'è un attacco di cuore? E' veramente simile a ciò che accade nel corpo durante un attacco di panico?

Un attacco di cuore si verifica quando il cuore non riceve più un flusso sanguigno adeguato, per varie cause. Invece durante un attacco di panico il sangue circola molto velocemente e già da qui capiamo che non è possibile che attacco di cuore ed attacco di panico siano la stessa cosa. Certo, alcune tra le sensazioni sperimentate sono simili ma la loro causa e le loro conseguenze sono ben diverse.
Inoltre durante un attacco di panico viene prodotta dal corpo una grande quantità di adrenalina, che, guarda caso, è proprio la sostanza che viene somministrata a livello ospedaliero quando un paziente presenta un attacco di cuore. Quindi come potrebbe essere che l'adrenalina in un caso fa smettere di battere il cuore e in un altro caso lo fa riprendere a funzionare? Nella tesi che un attacco di panico farebbe fermare il cuore c'è qualcosa che non torna. 

sintomi dell'attacco di panico
immagine su psicologionline.it

Un altro sintomo che generalmente spaventa chi soffre di attacchi di panico è la sensazione di "stretta alla gola" con la conseguente paura che la gola si possa chiudere fino a "soffocare" la persona. 

Anche qui proviamo a ragionare. Quando la gola si chiude (in assenza di una patologia di tipo medico preesistente)? Quando qualcosa la ostruisce. Ma se in gola non c'è nulla come fa questa a chiudersi e ad impedire il respiro? 
Anche qui c'è una bella differenza tra una sensazione di soffocamento, che è tra i sintomi dell'attacco di panico, e il soffocamento vero e proprio.

Quindi è molto importante fare una distinzione tra "mi sembra di..." "ho la sensazione di" e un dato di fatto reale e clinicamente rilevante. Sicuramente un attacco di panico (e a maggior ragione più attacchi di panico) è un'esperienza dolorosa e spiacevole ma non è realmente una situazione pericolosa per il paziente. Anzi, alcuni miei pazienti con attacchi di panico, riuscivano così bene a dissimulare la loro condizione (ad esempio per vergogna) che chi li circondava non si accorgeva nemmeno di cosa stessero provando in quel momento. 


Se io quindi mi convinco che non sono realmente in pericolo quando ho un attacco di panico posso anche accettare di mettermi in gioco in tutte quelle esperienze che temo perchè penso che facendole potrei avere un attacco di panico. E nel momento in cui le faccio (certo, le prime volte con fatica) e vedo che riesco, che non mi succede nulla, l'ansia pian piano diminuisce e gli attacchi di panico si riducono sempre di più.


lunedì 7 maggio 2018

Parliamo d'amore: quando la coppia scoppia

Mi capita a volte di incontrare delle coppie dove qualcosa si è rotto. 
Quando la coppia è in crisi spesso c'è una errata decodifica dei linguaggi d'amore che provengono dall'altro. 
Infatti i linguaggi d'amore che ogni individuo usa per esprimere il proprio sentimento verso l'altro sono molto personali e non è detto che siano condivisi e comuni all'interno della coppia.

Vediamo quindi quali sono i principali linguaggi d'amore:

Il primo è rappresentato dai gesti di servizio. Essi sono tutti quei conportamenti pratici e quotidiani tesi a far star bene l'altro. Ad esempio una persona puo cucinare un buon pranzo, preparare in ordine i vestiti allo scopo di far piacere al partner.
Ricordo una volta che conobbi una coppia che chiamerò di Marco e Luisa (nomi di fantasia) dove lui rimproverava lei di dedicare troppo tempo alla casa e alla cucina. Alla fine Luisa disse, piuttosto innervosita e delusa, che era dispiaciuta che lui non avesse mai realizzato che lei quelle attività le faceva  perché lui potesse essere contento e gratificato nel trovare la casa in ordine e un buon piatto fumante in tavola.

Il secondo linguaggio d'amore è rappresentato dall'intimita' fisica. Ricercare e donare abbracci, carezze, coltivare una buona intesa sessuale sono aspetti attraverso i quali nella coppia viene trasmesso l'interesse, l'affetto, l'amore verso l'altro. 
Poco tempo fa ho conosciuto una coppia nella quale la moglie desiderava tantissimo gesti di intimita fisica dal marito ma questi non arrivavano perché lui diceva di "non essere tipo" da manifestazioni come queste. Ho quindi lavorato per fargli capire che per la moglie  questi gesti erano molto importanti e contemporaneamente con la signora abbiamo analizzato i comportamenti del marito per trovare quelli attraverso i quali lui esprimeva il suo amore per lei (e li abbiamo trovati).

contatto fisico
immagine su udinetoday.it

Il terzo linguaggio d'amore è rappresentato dalle parole di rassicurazione. Con queste parole vengono espressi complimenti, apprezzamenti, scuse, sostegno e affetto. Frasi come "sei la persona più importante per me", "mi piace come ti comporti", "ti voglio bene", rientrano tutte in questa categoria.

Il quarto linguaggio d'amore è rappresentato dai doni. Farsi regali, in occasione di ricorrenze significative per la coppia ma anche come sorpresa, quando l'altro non se l'aspetta, è un altro modo per fargli capire quanto è importante per noi.

L'ultimo linguaggio d'amore è rappresentato dal coltivare dei momenti speciali dedicati alla coppia. Questi possono essere l'uscita almeno una volta al mese da soli, senza i figli, oppure il ritagliarsi la pausa pranzo insieme, insomma tutti quei momenti nei quali la coppia può dedicarsi "solo a se stessa". 
Tempo fa ho conosciuto una coppia all'interno della quale la moglie sosteneva di non riuscire ad uscire con il marito da sola, lasciando i figli ai nonni e considerava la cosa completamente giusta in quanto in lei imperava la regola "quando si diventa genitori bisogna fare ogni cosa insieme ai propri figli". Il marito invece soffriva molto per questa mancanza di tempo esclusivo per la coppia e si sentiva messo da parte dalla moglie. Dal canto suo la signora seguiva questa linea di azione del tutto in buona fede e senza alcuna intenzione di ferire il marito. Purtroppo però l'effetto ottenuto era ben diverso, al di là delle intenzioni.

creare momenti speciali
immagine su cosmopolitan.it


Come abbiamo visto i linguaggi d'amore sono molteplici. 

Quindi, quando sorge il problema?

Il problema nasce proprio quando i i reciproci linguaggi d'amore non vengono decifrati correttamente dai membri della coppia.

Ad esempio una moglie che esprime il suo amore con i gesti di servizio può essere vista dal marito come una casalinga pignola e non come una persona che sta mettendo amore nella coppia.
Oppure un marito che esprime il suo amore attraverso principalmente la creazione di momenti speciali per la coppia può essere visto negativamente dalla moglie che si aspetterebbe di ricevere amore maggiormente attraverso il contatto fisico. E così via.

Quindi come agire per evitare di creare ed essere vittima di fraintendimenti?

1. Parlare del significato che diamo ai nostri gesti. Possiamo ad esempio spiegare al nostro partner che per noi abbracciarlo, accarezzarlo, stargli fisicamente vicino sono modi attraverso i quali vogliamo manifestargli quanto teniamo a lui (o lei).

2. Chiedere al partner di provare a manifestare il suo affetto in un modo che a noi risulta più congeniale. Apprezzare anche i più piccoli sforzi fatti in questa direzione.

3. Notare se il partner prevalentemente utilizza uno o più tra questi linguaggi d'amore e cercare di interpretarli in senso positivo, cogliendo appunto in essi la manifestazione del suo affetto per noi.

mercoledì 28 febbraio 2018

Quando un bambino sta meglio

Un percorso di psicoterapia deve avere risultati visibili. Non ci si può accontentare del fatto che "sembra che il paziente stia meglio", "mi sembra più sereno". I risultati devono essere osservabili. Tanto più se si tratta di bambini.
Ultimamente mi è capitato di seguire Matteo, un bambino di 8 anni (le informazioni che possono renderlo riconoscibile sono state eliminate) che aveva molta difficoltà nel socializzare con i compagni di classe. All'intervallo a scuola stava seduto da solo al suo banco e in più non voleva andare a giocare all'oratorio, si rifiutava di partecipare alla feste di compleanno e, in generale, non vedeva di buon occhio tutte le situazioni di interazione sociale.
I genitori erano piuttosto preoccupati perché, se sembrava che inizialmente Matteo fosse "sereno" in questa situazione, col passare del tempo anche gli altri compagni o amici, probabilmente pensando che lui preferisse starsene da solo, avevano iniziato ad escluderlo, e non gli chiedevano più se volesse partecipare a qualche gioco con loro.
Matteo aveva iniziato quindi a soffrire molto di questa situazione perché si sentiva escluso e invisibile agli occhi degli altri bambini.
Quando ho iniziato a lavorare con Matteo, il primo passo è stato cercare di capire come vivesse lui la situazione e cosa lo spaventasse nell'idea di giocare con gli altri bambini. Tramite il colloquio è stato quindi possibile comprendere come alcuni giochi di tipo competitivo basati su abilità di tipo fisico a lui non piacessero mentre altri giochi più "tranquilli" come ad esempio giochi di società o giochi di carte fossero a lui più congeniali.
Il problema era che sia all'intervallo che fuori scuola, i giochi che facevano gli altri bambini erano più frequentemente giochi del primo tipo, cioè giochi di movimento e agilità.
In secondo luogo temeva molto il possibile rifiuto da parte degli altri cioè credeva che se avesse chiesto di poter giocare gli sarebbe stato risposto di no.
Il secondo passo è stato quindi di accogliere le emozioni del bambino, validarle e dimostragli che ero lì per comprenderlo e aiutarlo e non per sgridarlo o giudicarlo.
Siamo passati quindi a analizzare i suoi pensieri mettendoli alla prova. Abbiamo fatto finta di essere dei detective e di andare alla ricerca con una lente di ingradimento immaginaria delle prove della correttezza di questi pensieri concludendo che non c'era alcuna certezza del fatto che se avesse chiesto agli altri bambini di poter giocare questi avrebbero risposto negativamente.
Il terzo passo è stato individuare all'interno del gruppo classe quei compagni che solitamente non facevano giochi eccessivamente vivaci scoprendo che in effetti non tutti i bambini amassero correre o fare giochi di movimento e azione.
Il quarto passo è stato chiedere a Matteo di portare da casa un gioco di carte che a lui piacesse e che si potesse fare nel piccolo spazio dell'intervallo.
Matteo ha acconsentito e ha portato da casa uno dei suoi giochi di carte preferiti e ha chiesto ad una compagna piuttosto simpatica e tranquilla se volesse giocare con lui. Con suo grande stupore la bambina ha acconsentito.
Ben presto a questa compagna se ne sono aggiunti altri, accomunati dalla preferenza per giochi tranquilli e non fisici.
Nell'arco di qualche settimana l'intervallo ha cambiato aspetto.

Immagine da blogscuol2.wordpress.com

Ho quindi deciso, previo accordo con i genitori, di contattare una tra le insegnanti di Matteo e di avere un colloquio con lei. Ella mi ha confermato che effettivamente da un po' di tempo a quella parte vedeva il bambino "più inserito" nel gruppo classe. Le ho quindi suggerito di rinforzare verbalmente il bambino (tramite lodi, incoraggiamenti e complimenti) ogni qualvolta l'avesse visto interagire con gli altri. Inoltre l'insegnante ha proposto di mettere come compagno di banco per Matteo un bambino solare ed estroverso in grado di coinvolgerlo e di comunicare con lui in una maniera diretta e positiva.
Sono passati alcuni mesi da quando vedo Matteo e devo dire che concretamente la situazione a scuola per lui è davvero cambiata con grande soddisfazione sua, mia e dei suoi genitori.

lunedì 29 gennaio 2018

L'importanza degli obiettivi

Mi capita spesso lavorando con i genitori che mi senta dire: "Il mio bambino è un disastro su tutti i fronti. La scuola non va, sia nel rendimento che nel rapporto con i compagni. A casa poi è disordinato e tratta male sua sorella. Al mattino quando lo accompagno a scuola gli dico sempre "mi raccomando, fai il bravo!" ma mi sembra che le mie parole gli scivolino di dosso!".
Ecco, devo dire che questo modo di comunicare con i bambini orientato a fare cambiare uno o più comportamenti di solito non funziona.
Innanzitutto il bambino potrebbe non capire cosa ci aspettiamo da lui.
Dire un generico "fai il bravo" non ha un reale valore ma avrebbe più senso dire: "Mi aspetto che tu oggi nella verifica di storia cerchi di non distrarti. Abbiamo ripassato ieri insieme la lezione, so che la sai, ho fiducia in te".
Cosa c'è di diverso in questo modo di comunicare?
In primis la specificità. Il bambino in questo caso è "costretto" a mettere l'attenzione su quanto gli stiamo dicendo perché i contenuti che gli proponiamo sono specifici e dettagliati.
In secondo luogo gli trasmettiamo fiducia ("so che la sai").
Infine potremmo anche fornire una soluzione pratica alla possibile distrazione del bambino. "Se ti senti stanco fai una piccola pausa, poi riprendi il tuo lavoro". 
Un altro suggerimento che riguarda gli obiettivi che vogliamo che il nostro bambino raggiunga riguarda la loro numerosità. Non possiamo ragionevolmente pensare che se ci sono difficoltà su più fronti un bambino riesca a dedicarsi con impegno e successo ad ognuno di questi. È quindi importante fare una scala di priorità e decidere per questa settimana o per questo mese a cosa è più importante che lui si dedichi.
Voglio che legga di più o che aiuti di più in casa? Scelgo una sola cosa e gli chiedo di concentrarsi su quella.

Immagine da psicologiaquotidiana.altervista.com

In sintesi, se voglio che il mio bambino cambi alcuni suoi comportamenti:
Devo chiedergli poche cose per volta (più il bambino è piccolo, più questa regola diventa fondamentale).
Devono essere cose specifiche (il bambino deve capire cosa mi aspetto da lui).
Devo orientare al positivo la mia comunicazione, infondendo fiducia e incoraggiamento (so che ce la farai).
Devo fornire soluzioni che aiutino a superare gli ostacoli (se sei in difficoltà puoi fare...) .

sabato 6 gennaio 2018

Le battute d'arresto

Capita talvolta durante un percorso di psicoterapia che sta andando bene, di avere dei momenti dove, dopo un periodo di benessere e di concreti miglioramenti, i sintomi spiacevoli, ad esempio l'ansia o l' umore depresso, si possono ripresentare. 
Di solito di fronte a questi momenti i miei pazienti si "spaventano" perché pensano di essere tornati indietro, di dover ricominciare tutto da capo e si chiedono dove hanno sbagliato e se la terapia stia veramente funzionando. 
In realtà ogni  psicoterapia che funziona bene non è un percorso lineare in salita ma prevede delle piccole "ricadute" che sono quasi fisiologiche e che generalmente poi lasciano il posto a successivi miglioramenti. 
Per dare un' idea visiva del tutto, una psicoterapia di successo è rappresentata da un grafico in salita dove però ci sono dei piccoli temporanei "peggioramenti". 
A cosa sono dovute queste "battute d'arresto"? Solitamente dipendono dal fatto che il paziente per vari motivi smette di esercitare le abilità apprese durante la terapia. Ad esempio poco tempo fa un mio paziente con attacchi di panico che stava facendo grossi progressi, dopo un periodo di malattia in cui non si era più messo in gioco cercando di esporsi gradualmente alle situazioni ansiogene, aveva ricominciato a sperimentare dei picchi di ansia piuttosto fastidiosi. In seguito a questi episodi si era molto abbattuto perché pensava di essere nuovamente nel problema e che il percorso fatto finora non fosse servito a nulla. 
È bastato invece riprendere "l'allenamento" perché in breve tempo le cose tornassero ad andare bene.
Infine mi piace ricordare alcune parole che parecchi anni fa una collega bravissima conosciuta ai tempi del mio tirocinio come psicoterapeuta era solita dire: quando si intraprende un percorso di psicoterapia non si torna mai indietro al punto zero, al livello di partenza. Questo significa che le abilità apprese durante la psicoterapia non si dimenticano più. Certo, bisogna tenerle allenate perché diano sempre i loro frutti ma non è possibile che vengano cancellate e che la persona sia smarrita e si ritrovi improvvisamente senza strumenti utili per il cambiamento e il miglioramento. 


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